L’Italia sta attraversando una trasformazione profonda e silenziosa che intreccia dinamiche demografiche, economiche e sociali. Gli shock degli ultimi anni – pandemia, crisi energetica, inflazione – hanno accelerato processi in corso, premendo sulla tenuta delle comunità e sulla capacità del Paese di rinnovare il proprio modello di sviluppo. Al centro di questo cambiamento vi sono due fenomeni cruciali: la fragilità demografica e l’indebolimento progressivo del ceto medio, con conseguenze su povertà, mobilità sociale e produttività.
Sul fronte demografico, l’Italia registra nel 2024 il numero più basso di nascite dall’Unità: meno di 370mila, a fronte del picco del 1964 con 1,34 milioni di nuovi nati. Il contemporaneo aumento dell’aspettativa di vita, da 67 anni a 83, amplifica gli squilibri intergenerazionali. Ogni anno il Paese perde l’equivalente demografico di una città come Bologna. Nelle prossime decadi il numero dei grandi anziani crescerà in modo esponenziale, con oltre due milioni di ultranovantenni. Aumentano anche i nuclei monocomponente, oggi quasi 10 milioni di persone, con effetti su domanda abitativa, bisogni di cura e vulnerabilità sociale.
Da oltre quarant’anni la fecondità è sotto 1,5 figli per donna e oggi solo il 36% delle donne nate nel 1973 ha avuto due o più figli. Il “gap di fertilità” tra figli desiderati e avuti è tra i più alti d’Europa. Le difficoltà nell’accesso alla casa, nella stabilità lavorativa e nella conciliazione dei tempi di vita impediscono a molti giovani di tradurre i propri desideri in scelte famigliari. L’età media al primo figlio è salita a 32,6 anni, con ricadute sulla probabilità di averne un secondo o terzo. Le donne senza figli si concentrano nelle regioni economicamente più deboli, segno dell’impatto decisivo della povertà sulla demografia.
Parallelamente, l’Italia sperimenta un crescente squilibrio sociale. Negli ultimi quindici anni l’economia ha mostrato resilienza in termini di crescita e redditività, ma la ricchezza si è ulteriormente concentrata: il 5% più ricco è passato dal detenere il 40% al 48% del totale, mentre il 50% più povero è sceso dall’8,5% al 7%. La povertà assoluta riguarda oggi 5,7 milioni di persone – quasi il 10% degli italiani – con un aumento marcato nel Nord. La “nuova povertà” colpisce non solo disoccupati e stranieri, ma anche lavoratori con impiego stabile: le famiglie povere con un occupato sono quasi raddoppiate nell’ultimo decennio. I salari medi, inferiori ai livelli del 2019, penalizzano soprattutto il ceto medio, in flessione significativa e sempre più vulnerabile.
Il mercato del lavoro riflette questi squilibri. L’Italia rimane ultima in Europa per partecipazione femminile, pari al 60% contro una media UE del 73%. Il passaggio alla genitorialità continua a penalizzare soprattutto le madri, nonostante l’occupazione femminile sia condizione necessaria per la sostenibilità demografica e sociale. I NEET, pur diminuiti dal 26% al 15%, rappresentano ancora un freno alla crescita. A ciò si aggiunge il forte squilibrio nella mobilità dei talenti: tra il 2014 e il 2023 l’Italia ha perso 97.000 giovani laureati e nel solo 2023 il saldo migratorio dei laureati è stato negativo per 15.700 unità. Questo grava su un Paese che investe nella formazione ma spesso non ne beneficia.
La riduzione della popolazione in età lavorativa compromette produttività e sostenibilità del welfare. L’immigrazione, pur contribuendo, non è sufficiente a compensare il saldo negativo: per farlo servirebbero 500.000 ingressi l’anno, valore molto superiore alle attuali dinamiche e difficilmente gestibile. Intanto, oltre due milioni di posti di lavoro restano vacanti, per il disallineamento tra competenze offerte e richieste che riguarda tanto i profili tecnici quanto quelli altamente qualificati.
In questo quadro, le imprese, insieme a Stato e Terzo Settore, devono formare un “tridente sociale”. Le aree di intervento includono: sostegno alle famiglie a basso reddito attraverso strumenti di welfare aziendale; promozione dell’occupazione femminile con flessibilità, servizi di cura e governance orientata alla parità; formazione continua e collaborazione strutturale tra imprese, scuole e università; inclusione dei lavoratori stranieri e valorizzazione delle diversità; investimenti in innovazione e produttività sostenibile; rafforzamento delle partnership territoriali con fondazioni ed enti del Terzo Settore.
Le città e i territori italiani sperimentano questi fenomeni in modo differenziato. A sud, Palermo, pur registrando crescita di PIL e occupazione, vede un forte indebolimento demografico, redditi molto bassi e una quota crescente di famiglie monocomponente. A nord, Parma – percepita come benestante – conosce un aumento delle disuguaglianze e ha avviato un patto sociale territoriale per rafforzare il welfare condiviso, mentre Milano mostra nuove forme di fragilità legate a residenze irregolari e solitudine urbana.
La demografia non è solo un insieme di dati ma una chiave interpretativa del futuro del Paese. Il declino quantitativo della popolazione, non accompagnato da un adeguato potenziamento qualitativo – capitale umano, innovazione, formazione – mina crescita, welfare, mobilità sociale e fiducia collettiva. Serve una strategia nazionale basata su politiche strutturali, non temporanee: oltre a quanto già indicato, particolare attenzione legislativa va posta al tema dei lasciti filantropici.
La sfida riguarda non solo l’economia, ma la tenuta della democrazia e del contratto sociale. È necessario un nuovo patto tra generazioni, istituzioni e imprese per restituire prospettive, diritti e opportunità alle persone e al Paese.


