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Attività

Centralità dell’industria e investimenti esteri: quali politiche e strumenti?

    • Cesano Maderno (MB)
    • 12 Ottobre 2015

          Il tessuto industriale italiano ha dimostrato buone capacità di reazione e adattamento, nonostante il perdurare della crisi economica ne abbia segnato un importante ridimensionamento. Tra il 2008 e il 2014 il numero di aziende è diminuito di circa 47.000 unità, un calo che colpisce principalmente imprese di media e piccola dimensione, mentre il potenziale manifatturiero nel suo complesso si è contratto del 18%. Migliaia di posti di lavoro sono stati distrutti, decine di marchi storici sono scomparsi e la competizione internazionale, accompagnata da repentini cambiamenti tecnologici, è diventata sempre più agguerrita. Tra i comparti maggiormente colpiti vi sono alcune eccellenze italiane del mondo farmaceutico, tessile e metallurgico.

          In questo quadro, l’Italia rimane tuttavia la seconda manifattura in Europa e la quinta al mondo. Grazie ad aziende medio-grandi operanti in nicchie di mercato ad alto contenuto tecnologico, sei delle prime dieci provincie industriali superspecializzate dell’Unione Europea sono italiane, mentre in termini di quote di mercato estero, le imprese medium-tech italiane sono leader mondiali per l’esportazione di circa un migliaio di beni. I prodotti italiani si affermano nel mondo per via della combinazione di artigianalità, design e tecnologia.

          L’Italia può ripartire proprio dall’industria, e dalle sue storie di successo, per gettare le basi per uno sviluppo economico solido e sostenibile. Oltre all’impatto occupazionale positivo, un settore manifatturiero moderno e competitivo rappresenta un volano di crescita eccezionale per il Paese. A differenza del settore terziario, il manifatturiero ha un effetto moltiplicatore più elevato sul resto dell’economia, porta a maggiori investimenti in ricerca sia di prodotto sia di processo, e facilita l’integrazione dell’Italia nelle catene globali del valore.

          Una politica industriale lungimirante può far emergere un new made in Italy, capace di far leva sui vantaggi competitivi esistenti per presidiare nuovi settori grazie allo sviluppo di tecnologie verdi, all’internazionalizzazione complessa e all’utilizzo su ampia scala di processi produttivi incentrati sull’uso di stampanti 3-D. Governo, imprese e parti sociali devono collaborare per costruire un ambiente favorevole alle “4A”del made in Italy (abbigliamento, arredamento, agroindustria e automazione meccanica), alle imprese del manifatturiero avanzato, alle aziende del medium hi-tech e ai distretti industriali.

          Sarebbe un errore, però, soffermarsi soltanto sulle esigenze delle imprese domestiche. Si richiede uno sforzo particolare per intercettare quegli investimenti diretti esteri (IDE) che tendono a dirigersi non solo verso i paesi emergenti, ma anche verso economie avanzate con un sistema normativo più favorevole al fare impresa rispetto a quello italiano. Tra il 2010 e il 2014, l’Italia ha attratto 16 miliardi di dollari di IDE contro i 56 del Regno Unito e i 35 della Germania. Gli IDE contribuiscono alla crescita del PIL, valorizzano il know-how della filiera produttiva italiana e favoriscono il potenziamento del territorio in cui sono localizzate.

          Per attivare questo circolo virtuoso, la ricetta è nota. Snellimento della burocrazia, sostegno all’economia della conoscenza, riduzione del costo del lavoro, contenimento degli adempimenti fiscali e una maggiore efficienza del sistema giudiziario. Solo una forte determinazione a risolvere le criticità sistemiche del passato può permettere all’industria italiana del futuro di decollare e conquistare i mercati globali.

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