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Attività

Trump in action: America first from words to deeds

    • Roma
    • 13 Giugno 2018

          Il concetto racchiuso nell’espressione “America First” rappresenta forze potenti nella società americana, e alcuni evidenti elementi di rottura in politica estera arrivano dopo anni di progressiva erosione del consenso internazionale (anche all’interno dello stesso Occidente) e della legittimità delle grandi istituzioni sorte dalla Seconda Guerra Mondiale. In chiave transatlantica, la tentazione ricorrente è stata quella di salvaguardare la partnership nelle sue forme preesistenti, mentre però il sistema globale stava cambiando rapidamente. Un esempio lampante è la ripetitività del “rituale” del G7 negli ultimi anni, con comunicati finali che riflettevano soltanto un minimo comune denominatore di scarsa utilità pratica.

          L’analisi delle scelte compiute finora da Donald Trump fa emergere tratti populisti e nazionalisti, ma non isolazionista – nella tradizione “jacksoniana” della politica estera americana. Il Presidente crede nella potenza americana, ma non nella promozione attiva di obiettivi generali e di lungo periodo nel resto nel mondo. E scommette sulla superiorità degli Stati Uniti in quasi tutti settori decisivi, accettando dunque rischi notevoli, compreso un effettivo indebolimento del tessuto dei rapporti internazionali.

          Le scelte dell’attuale amministrazione poggiano su basi interne che restano piuttosto solide a pochi mesi dalle elezioni di mezzo termine – nonostante alcune importanti aree di dissenso anche esplicito nei confronti del Presidente. Proprio come in campagna elettorale, una chiave del suo successo interno sta, comunque, nella capacità di evidenziare le carenze delle élites tradizionali e dei media mainstream.

          All’esterno, sta emergendo una notevole capacità di Donald Trump di sfruttare le debolezze dei suoi avversari, sulla base di un rapporto diretto e spesso non istituzionale. L’imprevedibilità come strumento tattico può agevolare i successi negoziali di breve termine, ma crea dei pericoli nel medio e lungo termine. L’abitudine di comunicare chiaramente le proprie intenzioni agli avversari è in parte un’eredità specifica della guerra fredda e dell’equilibrio nucleare – che richiedeva anzitutto dei meccanismi per evitare un conflitto accidentale. Trump non adotta questo approccio, in parte per scelta tattica, ma in parte perché riconosce che il contesto è radicalmente cambiato.

          Al tempo stesso, la predilezione per una diplomazia fortemente personale, basata su faccia a faccia diretti, rende difficile qualsiasi forma di coordinamento con gli alleati tradizionali, come si è visto in tutta evidenza nel caso della Corea del Nord.

          Alcuni tratti “jacksoniani”, del resto, sono sempre stati presenti nella politica estera americana: perfino nel momento più acuto dell’avvio della guerra fredda, le alleanze a guida americana e lo stesso Piano Marshall furono resi possibili da un clima interno agli Stati Uniti che fu fortemente influenzato dalla “red scare”, cioè dal timore di una quasi irresistibile avanzata sovietica nel mondo, in termini militari ma anche ideologici. Soltanto quel clima eccezionale e di emergenza nazionale consentì l’emergere di un consenso per una politica globale molto “proattiva”.

          Alcuni partecipanti hanno notato che la tradizione jacksoniana è però contraria al protezionismo, e che dunque sul piano economico le posizioni di Trump sembrano rispondere ad altri interessi. Il passaggio dalla centralità esclusiva del free trade al concetto di fair trade riflette una rinascita della politica rispetto all’economia dominata dalla finanza, e una reazione sociale e culturale agli aspetti negativi della globalizzazione. In tal senso la nuova direzione intrapresa da Washington si spiega in parte come conseguenza di sommovimenti globali che investono moltissimi Paesi, e certamente tutte le economie più avanzate.

          Inoltre, c’è una lunga tradizione di candidati presidenziali usciti vincitori esattamente grazie alla loro enfasi sulla priorità degli interessi americani, e spesso sugli interessi interni rispetto a quello internazionali, compresi Bill Clinton e Barack Obama.

          In termini di rapporti transatlantici, il problema di fondo dalla prospettiva di Trump è certamente il ruolo della Germania nel settore commerciale, anche alla luce della riluttanza tedesca ad assumere maggiore responsabilità di sicurezza – come evidenziato dagli scarsi investimenti nella difesa. Il problema è strutturale perché in effetti non è chiaro cosa Washington  potrebbe ottenere dalla Germania in cambio di qualche concessione in campo commerciale.

          Intanto, un ostacolo ideologico a una maggiore collaborazione transatlantica risiede nei fondamenti “wilsoniani” dell’intera costruzione europea: la UE è sostanzialmente basata sugli assunti tipici di un sistema internazionale regolato, relativamente pacifico, compatibile con i valori europei. L’alleanza con gli Stati Uniti ha fino ad oggi servito quell’obiettivo, oltre ad assicurare una sorta di contenimento “soft” della Germania e, dunque, una stabilizzazione dello stesso quadro europeo.

          Il rischio ulteriore è che la spinta proveniente da Trump produca una serie di fratture interne al continente europeo, mentre il primo requisito per un migliore contributo europeo al rinnovamento del rapporto transatlantico è proprio una maggiore capacità di agire in modo coordinato ed efficace. Questa carenza europea è una ragione fondamentale del deterioramento transatlantico, e non è chiaro come la “rinazionalizzazione” in corso anche nel Vecchio Continente possa favorire una maggiore responsabilità ed efficacia collettiva.

          Guardando alla regione mediorientale, emerge soprattutto una profonda divergenza tra le due sponde dell’Atlantico nell’interpretazione della scelta operata a suo tempo da Barack Obama sull’Iran: gli europei accusano Trump di aver abbandonato gli alleati (europei) nell’uscire dal JCPOA, ma l’amministrazione ritiene che fu Obama ad abbandonare gli alleati regionali degli Stati Uniti (soprattutto Arabia Saudita e Israele) per aprire a Teheran. In ogni caso, in Europa c’è una forte preferenza per un approccio cauto e paziente verso Teheran che contrasta nettamente con l’atteggiamento di Washington.

          Molti interrogativi restano poi aperti sul rapporto con la Russia, che Trump tende a gestire in modo decisamente bilaterale e senza particolare attenzione alle decisioni assunte in formato multilaterale, a cominciare dal complesso impianto delle sanzioni imposte a seguito dell’annessione della Crimea.