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Attività

Post-election America: political and economic challenges

    • Roma
    • 1 Dicembre 2016

          Il voto americano del novembre 2016 ha generato diffuse preoccupazioni per l’intero assetto dei rapporti transatlantici. I timori riguardano sia le regole condivise e i meccanismi di dialogo, sia i valori fondamentali della democrazia liberale, alla luce della forte impronta nazionalista (soprattutto in campo economico) e visione delle alleanze presentata da Donald Trump in campagna elettorale. È decisivo comprendere come il sistema politico americano abbia prodotto un esito così dirompente, anche perché alcuni aspetti del dibattito negli Stati Uniti riecheggiano discussioni in corso in Europa.

          Il sistema politico americano: adattamento graduale o gravi tensioni strutturali?
          La campagna presidenziale del 2016 ha fatto emergere due vere e proprie rivolte all’interno di entrambi i partiti tradizionali, incarnate da Bernie Sanders per i Democratici e da Donald Trump per i Repubblicani. Lo scontro trasversale è stato in sostanza tra gli insider (a cominciare ovviamente dalla grande sconfitta, Hillary Clinton, per proseguire con gli inefficaci avversari di Trump come “conservatori moderati”)  e gli outsider, prima ancora che tra progressisti e conservatori.

          Alla base di questo fenomeno è il senso diffuso di una crisi profonda del sistema politico (peraltro comune anche ad altre democrazie avanzate) nel rapporto tra i meccanismi decisionali e gli interessi dei cittadini. Da un lato emerge una grave rigidità del sistema istituzionale nell’adattarsi i cambiamenti sociali ed economici, e dall’altro il ruolo dei gruppi di interesse in grado di esercitare fortissima influenza soprattutto sul Congresso. Con la polarizzazione politico-ideologica degli ultimi anni nella società americana, combinata alla peculiare struttura dei “checks and balances” che favorisce i poteri di veto, l’effetto complessivo è stato una sorta di paralisi decisionale – che ha a sua volta aggravato la percezione di sfiducia tra i cittadini. La soluzione da parte del potere legislativo è stata spesso nel produrre norme sempre più intricate, con moltissime eccezioni (tipicamente inserite dalle lobby) e scarsa coerenza complessiva; una tendenza che incoraggia un gran numero di ricorsi legali, con costi elevatissimi. Il potere esecutivo intanto ha fatto spesso ricorso agli “executive orders” e al potenziamento di varie “agenzie” semi-indipendenti: entrambe soluzioni che sottraggono ai cittadini la facoltà di influenzare e talvolta anche di comprendere le norme esistenti.

          L’attacco frontale all’establishment di Washington che è giunto sia da Sanders sia da Trump nella campagna 2016 si è incentrato proprio su questa combinazione di fattori, che avvantaggia gli “insider” della politica e danneggia o emargina i cittadini comuni. Le diseguaglianze economiche, aggravate dalla grande recessione del 2008, si sono così trasformate in fratture culturali e in parte in conflitti idenditari tra varie componenti della società americana.

          Guardando ai prossimi due anni – cioè almeno fino alle elezioni di midterm del 2018 – il presidente Trump disporrà della maggioranza Repubblicana in entrambi i rami del Congresso (sebbene risicata al Senato), limitando così i rischi di paralisi legislativa. Anche il ruolo della Corte Suprema sarà presumibilmente favorevole all’agenda del Presidente, visto che a breve ci sarà la nomina di un Giudice della Corte, decisivo in caso di parità dei voti.

          Parte delle promesse elettorali di Trump, in ogni caso, sono assai difficili da realizzare, soprattutto riguardo agli investimenti privati che vorrebbe trattenere negli Stati Uniti e riguardo alle misure protezionistiche più radicali. Più probabile – e più popolare –  è invece un forte stimolo alla spesa per le infrastrutture, anche a costo di aumentare in modo sensibile il debito pubblico: in questo settore ci saranno dei contrasti all’interno del partito Repubblicano, ma probabilmente non una forte opposizione. In effetti, Donald Trump non può considerarsi un classico esponente del mondo conservatore, e dunque porrà una sfida nuova alle elites repubblicane, visto che l’elettorato sembra aver preferito un candidato anomalo rispetto ai candidati cosiddetti “moderati” o “centristi”.

          Il futuro di entrambi partiti è comunque molto incerto, alla luce della loro continua trasformazione rispetto ai blocchi sociali che rappresentano – in particolare, con le “working class” impoverite (quantomeno bianche) che sono oggi concentrate nel partito Repubblicano e non più in quello Democratico. È anche vero che le dinamiche demografiche continueranno a favorire i Democratici, pur non garantendo un vero “blocco elettorale” come quello che ha portato alle due vittorie di Barack Obama nel 2008 e 2012.

          Il meccanismo del collegio elettorale, secondo alcuni osservatori, sta diventando realmente problematico, nella misura in cui accentua lo scollamento tra elettori ed eletti, come è accaduto proprio nel voto presidenziale 2016 – con una prevalenza di voti di circa due milioni per Hillary Clinton su scala nazionale, ma una vittoria non contestabile di Donald Trump nel collegio elettorale, appunto. Se una situazione simile dovesse ripetersi, potrebbe mettere in dubbio la legittimità del processo democratico, a maggior ragione in una di forte polarizzazione politica del Paese.

          Le scelte economiche e le implicazioni internazionali
          L’incertezza generata dalle scelte economiche della prossima presidenza a livello internazionale è molto diffusa, sia tra i leader politici che nel mondo del business. Dato il ruolo degli Stati Uniti, alcune scelte sul piano interno avranno comunque – in modo più o meno deliberato – ripercussioni internazionali. Proprio l’incertezza è, secondo la tesi della “stagnazione secolare”, un fattore decisivo della bassa crescita di cui soffre oggi il sistema globale.

          Le prime reazioni dei mercati statunitensi alla vittoria di Donald Trump sono state però positive, in base all’aspettativa di un nuovo stimolo alla crescita in molti settori-chiave. La cruciale questione di come ridurre le forti diseguaglianze potrebbe trovare una parziale risposta nel rimpatrio di molti capitali, che verrebbero investiti all’interno del Paese. Le stesse preoccupazioni iniziali nei settori tecnologici più innovativi – Silicon Valley – sembrano essere compensate dal naturale dinamismo dell’economia americana e dalle forme molto variegate che possono assumere i processi di innovazione: in tal senso, molti scommettono sul pragmatismo di Donald Trump proprio come ex-imprenditore.

          Guardando alle politiche commerciali, potremmo essere alla vigilia di un mutamento fondamentale nell’approccio americano alla collaborazione internazionale. La scelta annunciata da Trump sul TPP (Trans-Pacific Partnership) è stata letta da molti come un regalo – per quanto paradossale –  alle aspirazioni cinesi di dominare gli scambi commerciali nella grande regione dell’Asia-Pacifico.

          Sulle scelte fiscali, Trump ha annunciato di voler rimpatriare capitali in misura massiccia – il che avrà implicazioni negative (o quantomeno pressioni competitive) per l’Europa come destinazione naturale di capitali americani. Alcuni ritengono, tuttavia, che non esista una reale scarsità di capitali nel Vecchio Continente, e che, dunque, una minore presenza americana potrebbe causare una migliore allocazione delle risorse.

          Nel settore finanziario, il livello di protezione dei consumatori calerà rispetto agli anni della grande recessione. Le banche ne saranno i primi beneficiari naturali, ma potrebbero tornare proprio per questo a prendere rischi eccessivi. Quasi tutti gli osservatori concordano sull’imminente crescita dei tassi di interesse e sul rafforzamento del dollaro.

          Sui mercati emergenti dovrebbe aumentare il rischio complessivo, con significative fughe di capitali (e dunque un ulteriore rafforzamento del dollaro) e un probabile rallentamento delle loro economie.

          I programmi di investimento infrastrutturale possono avere un effetto-volano su vari settori dell’economia – e forse una indiretta ripercussione positiva anche sulle scelte dei Paesi europei, se non altro per imitazione. L’approccio di Trump sembra prospettare una nuova ondata di “suburbanization” del Paese, con una forte espansione del mercato edilizio all’esterno degli attuali agglomerati urbani (anche per ragioni di costo dei terreni edificabili). È uno sviluppo che potrà essere favorito dalle tecnologie mobili e di comunicazione, in grado di garantire collegamenti istantanei anche a grande distanza e perfino senza spostamenti fisici lungo le strade.

          Naturalmente, programmi del genere implicano una massa creditizia notevole per sostenere gli acquisti e la spesa privata. E pongono la questione del debito pubblico americano, destinato ad aumentare (almeno nel breve termine) a fronte dei tagli fiscali promessi da Trump. Una situazione che finirebbe per accompagnarsi a un crescente deficit commerciale, auspicabilmente senza danneggiare comunque il dollaro. Questo quantomeno è lo scenario positivo delineato dalla vittoria repubblicana del novembre 2016.

          È stato sottolineato, d’altra parte, che una politica così espansiva produrrà inflazione, in una situazione come quella attuale di occupazione nominalmente molto bassa (seppure di qualità variabile e con una percezione diffusa di scarse prospettive per le nuove generazioni). In sostanza, vi potrebbe essere poco spazio per un classico stimolo fiscale di tipo “reaganiano”: in particolare, sarebbe necessario un taglio fiscale incentrato sulla classe media, invece che sui redditi più alti. Un problema di fondo rimane, infatti, quello delle diseguaglianze, che difficilmente saranno ridotte dalle politiche promosse da Trump come candidato – un problema che chiaramente avrà conseguenze politiche già nel midterm del 2018.

          Nel complesso, il maggiore punto interrogativo riguarda gli effetti indiretti – o di ritorno – delle politiche commerciali e finanziarie americane sul resto del mondo che potrebbero finire per destabilizzare gli stessi Stati Uniti. Iniziative protezionistiche rischiano di ridurre i profitti di alcune grandi multinazionali, oltre a innescare una escalation di misure protezionistiche da parte di altri.

          In campo energetico, le politiche federali saranno ricalibrate (verso lo shale gas, come anche petrolio convenzionale e carbone) ma ormai importanti investimenti nelle rinnovabili sono già stati fatti e l’efficienza di alcune fonti è tale da competere con le fonti fossili senza bisogno di sussidi. Dunque, non siamo di fronte a un’inversione delle tendenze viste negli ultimi anni.

          I rapporti transatlantici e l’ordine liberale
          Si possono fare alcune importanti riflessioni in chiave comparata, a partire dal grande collante del rapporto transatlantico: il senso condiviso del successo planetario della civiltà occidentale (o almeno di alcuni suoi cardini istituzionali) su scala globale. Questa convinzione si sta sfaldando. Le leadership politiche ed economiche reagiscono in vario modo, ma senza dubbio gli elettori, negli ultimi anni, hanno reagito con voti di contestazione dell’attuale status quo. Ogni Paese manifesta il disagio in modo parzialmente differente, e vi sono certamente specificità americane in tale contesto, ma il problema di fondo è comune alle società occidentali. È diminuita la fiducia dei Paesi democratico-liberali nel loro stesso modello di governo e di società. In particolare, si sottovaluta spesso la secondo componente del mix: non soltanto il diritto al voto e il suffragio universale (la democrazia procedurale) ma anche la rule of law e, dunque, la protezione delle minoranze – motivo per cui non può esistere una forma di “democrazia illiberale” nel senso in cui i sistemi democratici sono intesi in Occidente. Le tendenze illiberali e nazionaliste sono storicamente tipiche dei periodi in cui molti cittadini temono un “altro” – un nemico interno o esterno – e dunque chiedono protezione sopra ogni altra richiesta: si è oggi arrivati ad una fase del genere, con gli evidenti rischi che ciò pone nei rapporti internazionali. Alla luce di questo punto, peraltro, si può in parte spiegare l’atteggiamento di Donald Trump in campagna elettorale riguardo alla Russia di Vladimir Putin, nella misura in cui gli elettori di Trump condividono con molti russi la richiesta di una reazione nazionalista contro pericoli esterni.

          La grande sfida per i rapporti transatlantici sta nella natura competitiva e antagonistica del nazionalismo, che è difficilmente compatibile con l’intensa cooperazione tra governi a cui è abituato il mondo occidentale. In ogni caso la ricetta del nazionalismo, di per sé, non affronta alla radice le ragioni delle paure diffuse nelle società; ricerca semmai delle soluzioni difensive, mettendo però a rischio i meccanismi consolidati della cooperazione internazionale.

          È stato comunque ricordato che il nazionalismo americano è sempre stato diverso da quello europeo: il primo si è manifestato in una forma democratica, mentre il secondo ha spesso avuto derive autoritarie o decisamente anti-democratiche. In realtà, anche in presenza di tendenze nazionalistiche ricorrenti, gli Stati Uniti hanno saputo porsi alla guida di un sistema internazionale liberale; questa particolare combinazione potrebbe non durare nel futuro, ma offre un punto di riferimento positivo per gli europei se essi riusciranno ad assumere un ruolo più attivo su scala globale proprio nella fase attuale di imprevedibilità o incertezza delle scelte americane. L’apporto europeo sarà decisivo per delineare una sorta di “terza via” tra la chiusura nazionalistica e la globalizzazione senza vincoli (che ormai non ha più chiaramente il sostegno degli elettori nei Paesi occidentali).

          In termini politici e di sicurezza, l’architrave del rapporto transatlantico è stato il sostegno americano per l’integrazione europea, e questo elemento è oggi in serio dubbio se dovesse prevalere a Washington un approccio “transactional” incentrato su intese bilaterali – soprattutto, presumibilmente, con la Gran Bretagna e forse la Germania. In settori come la cybersecurity, la hybrid warfare, il terrorismo e la criminalità organizzata, la cooperazione tra Stati Uniti e UE è cruciale, e gli apparati di sicurezza sono ben coscienti di questa esigenza. Anche sulla sicurezza energetica il dialogo euroamericano si è approfondito negli ultimi anni e ci sarà una certa pressione sulla nuova amministrazione per non interrompere gli sforzi in corso. Un punto interrogativo riguarda gli impegni presi da Washington sul sostegno alle energie rinnovabili nel quadro dell’accordo di Parigi del dicembre 2015, sul quale l’Europa ha investito molte risorse e non è disposta a cambiare rotta.

          Quanto alla NATO, è probabile che le posizioni di Washington torneranno nell’alveo della tradizione, con un serio impegno per la sicurezza comune nonostante le comprensibili preoccupazioni per il livello insufficiente della spesa europea per la difesa.

          Il rapporto con la Russia sarà certamente il primo test delle intenzioni della presidenza Trump in politica estera, con un difficile equilibrio da trovare tra l’attuale regime di sanzioni e un dialogo aperto con Mosca.

          L’accordo nucleare con l’Iran è un ulteriore questione di interesse comune sulla quale Washington potrebbe cambiare decisamente posizione, anche se appare improbabile un improvviso abbandono degli impegni assunti in un contesto multilaterale. Naturalmente, proprio il carattere multilaterale dell’accordo pone un immediato problema per gli europei che lo hanno siglato e sostenuto.

          Sul piano commerciale, i negoziati in vista del TTIP hanno già raggiunto un notevole livello di dettaglio, ed esiste comunque una tradizione consolidata di dialogo sulle regole, gli standard, la risoluzione delle controversie. In sostanza, anche un’amministrazione americana con un orientamento relativamente protezionista e “America first” dovrà tenere conto delle realtà dell’interdipendenza economica, e alcuni esperti ritengono che esista la reale possibilità di un accordo commerciale transatlantico sebbene meno ambizioso e onnicomprensivo rispetto al TTIP. Un aspetto che avrebbe potenziali effetti divergenti tra le due sponde dell’Atlantico è l’eventuale riforma delle normative sulle banche e le attività finanziarie (in particolare il Dodd-Frank Act del 2010).

          • Francis Fukuyama
          • Post-election America: political and economic challenges, Roma, 1-2 dicembre 2016
          • Domenico Siniscalco, Erik Jones e Jacek Rostowski
          • Giuliano Amato e Giulio Tremonti
          • Sergio Fabbrini, Francis Fukuyama, Marta Dassù e Federico Romero
          • Sergio Fabrini, Francis Fukuyama e Gianni Riotta
          • Walter Russell Mead, Emma Marcegaglia e Domenico Siniscalco