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Attività

La quarta rivoluzione industriale: ripensare il mercato del lavoro e il welfare

    • Roma
    • 21 Settembre 2017

          Imprevedibile nelle conseguenze come ogni cesura storica del passato, ma del tutto peculiare in termini di pervasività, intensità del cambiamento innescato, velocità delle mutazioni che comporta: la quarta rivoluzione industriale può essere descritta anzitutto così: come lo “spartiacque progressivo” tra un’epoca e l’altra. È proprio questa contraddizione, invero solo apparente, che bene riepiloga la sua natura ibrida: da un lato il cambio radicale e obbligato di paradigma, dall’altro il tratto incrementale delle trasformazioni; da una parte l’assenza di un singolo fatto scatenante o di una grande scoperta scientifica a scardinare ogni situazione pregressa, dall’altra l’accumularsi inesorabile di progressi tecnologici, conquiste, perfezionamenti. A rendere ulteriormente articolata la definizione c’è anche la mancanza di un termine certo entro il quale perimetrare l’impatto della rivoluzione stessa. Nessuno, neppure i futurologhi più arditi, sa ancora fino a che punto potranno spingersi gli avanzamenti dell’intelligenza artificiale, dell’utilizzo sofisticato degli algoritmi, della robotica, dell’Internet of Things, dell’infinita capacità di calcolo nei cloud.

          L’unica certezza è il riconoscimento del fatto che all’imprevedibilità del cambiamento occorre adattarsi e che esso investa, e sempre più sia destinato a investire, ogni ambito della vita sociale. Dal lavoro al welfare, dall’education al management dei processi economici e produttivi, dalla demografia all’etica e al diritto: le evoluzioni in atto modificano, giorno dopo giorno, rapporti di forza e vincoli relazionali, imponendo sfide in larga parte inedite alle istituzioni (nazionali e sovranazionali), ai corpi sociali, alle imprese, alle famiglie, ai singoli individui.

          Sul terreno del welfare e dei modelli di protezione sociale guidare queste dinamiche assume i connotati dell’urgenza. Il tema è da tempo al centro del dibattito pubblico, negli Stati Uniti come in Europa. Al di là delle provocazioni su una suggestiva, ma impossibile, sostituzione dell’uomo con la macchina, ciò che accomuna commentatori di ogni orientamento è la percezione che ai nuovi bisogni ingenerati dalla rivoluzione tecnologica serva rispondere con una rimodulazione intelligente tanto della natura dei diritti quanto delle regole per promuoverli. Sullo sfondo, naturalmente, anche il “decennio nero” della crisi economica, con la conseguente polarizzazione del benessere e delle opportunità, e lo stato di salute della democrazia rappresentativa di stampo tradizionale, i cui riti codificati appaiono prevalentemente inadatti a supportare l’impetuosa e spesso disordinata nuova richiesta di partecipazione, figlia anch’essa del progresso tecnologico.

          Come tradurre questi fenomeni in un paradigma sostenibile, in Italia e in Europa, resta oggetto di confronto. In primo luogo, sul versante del “metodo”. Ha senso – ci si chiede – fissare oggi, entro uno schema immobile, processi che per propria natura sono invece mobili, vale a dire adusi a trasformarsi in continuazione? Fermo restando lo spettro dei diritti  non derogabili e dei valori non negoziabili, si tratta di regolare in modo flessibile l’intero assetto delle relazioni tra capitale e lavoro, di fatto certificando la fine di un modello, quello di matrice novecentesca, semplicemente inadatto, perché obsoleto, a rispondere a queste sfide. Riforma delle politiche attive per il lavoro, compatibilità e sinergie tra welfare pubblico e welfare aziendale, europeizzazione delle politiche sociali, duttilità degli strumenti e dei servizi alla persona in funzione anche delle tendenze demografiche: i nodi da sciogliere sono numerosi e sono appannaggio anzitutto del legislatore, del giuslavorista, dello studioso di filosofia del diritto.

          Tuttavia, se a trasformarsi è la natura intrinseca del lavoro va da sé che il mutamento deve impegnare, a monte, gli stessi processi di educazione, di formazione, di orientamento professionale. In questo ambito l’intensità della rivoluzione è perfino più profonda, visto che a cambiare sono tanto i percorsi cognitivi di apprendimento quanto il complessivo quadro delle competenze e dei saperi richiesti per entrare (o restare, o tornare) nei cosiddetti “mercati transizionali del lavoro”. In termini più semplici, oltre a una non più differibile programmazione intelligente della life-long learning, occorrono la duttilità di scrivere una pedagogia moderna che incroci in chiave attuale teoria e pratica e soprattutto quel “pensiero laterale” da sempre indispensabile all’umanità per gestire il cambiamento. Dopotutto, l’intelligenza artificiale è una estensione, non un fattore sostitutivo, del genio umano. Ed è ad esso che evidentemente spetta il compito di trovare le risposte alla complessità del presente e del futuro  con soluzioni improntate alla creatività, alla resilienza, alla capacità di visione.