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Attività

Assessing risk: business in global disorder

    International Dialogue
    • Venezia
    • 6 Marzo 2015

          Il 2014 ha rappresentato il definitivo “ritorno” sulla scena della geopolitica. La transizione verso un’era più instabile, e la capacità della comunità internazionale delle istituzioni e degli affari di farvi fronte, sono state al centro della discussione in cui si è anche provato a definire una nuova “matrice del rischio”, lungo gli assi geografico e settoriale. Nel mondo “piatto” della globalizzazione divergenze, frammentazione e conflitti sembravano dissolti, ma l’impressione è che si stia delineando un nuovo paradigma con una rischiosità crescente, anche a causa della componente geopolitica dominante. I mercati non sembrano intaccati, ma chi può garantire che il decoupling tra geopolitica e affari duri a lungo?

          Nell’era della globalizzazione dominante le imprese hanno affrontato rischi crescenti, ma in una cornice di sostanziale gestibilità. Le pratiche di gestione del rischio adottate si sono rivelate efficaci nel gestire la complessità, ma oggi sembrano aver perso questa capacità in quanto il panorama si sta offuscando, e il rischio si tramuta in incertezza.

          I rischi sono globali perché maggiore è l’interdipendenza, anche per le innovazioni delle nuove tecnologie, soprattutto quelle dell’informazione e della comunicazione. E, dunque, occorre dare risposte su scala globale. La governance mondiale e macro-regionale dovrebbe dare risposte efficaci per semplificare il quadro della complessità e dell’incertezza, e ricostruire il terreno che consenta agli operatori di gestire il rischio. Senza dubbio vanno potenziati gli strumenti, ma gli ostacoli veri sono l’accentuarsi delle differenze e delle divergenze, la competizione geopolitica e geo-economica e la frammentazione. I fallimenti dell’azione collettiva impediscono il coordinamento internazionale necessario per implementare le soluzioni disponibili. Anche il mondo del business però deve rinnovarsi per affrontare le nuove sfide. Secondo importanti survey il management non sarebbe pronto a fronteggiarle efficacemente. Le imprese più lungimiranti chiedono di interagire con istituzioni dotate con maggiore visione strategica, con cui cooperare in progetti innovativi.

          Da una prospettiva geografica, il rischio geopolitico è in larga misura determinato dall’instabilità in tre aree più “calde”, in cui l’Occidente esercita un’influenza sempre minore. La prima è l’Estremo Oriente, in cui sta intensificando la competizione geopolitica tra Cina e paesi limitrofi, alleati degli USA. La Cina oggi punta ad affermarsi come maggiore potenza incontestata dell’Asia e vuole indebolire il sistema di alleanze degli USA. Le attenzioni sembrano spostarsi dall’Africa e dall’America Latina al Pacifico con un approccio più hard. Ci sono poi le evidenze di una correzione del modello di sviluppo verso un nuovo mix di attività, con la crescita dei servizi a svantaggio della manifattura, che ne migliorerebbe la sostenibilità in termini sia sociali sia ambientali.

          La transizione è accompagnata da riforme tese a migliorare l’ambiente di business per gli investitori esteri, ma non è e non sarà indolore, con il rallentamento della crescita economica nel breve ma l’opportunità di una crescita più sostenibile nel lungo termine. Oggi c’è una minaccia di dumping sui mercati internazionali, da contrastare con un maggiore coordinamento multilaterale nel commercio estero. Se la transizione cinese andrà a buon fine, ci sarà solo da guadagnare. La crisi russa rappresenta il secondo fronte di grande instabilità. La caduta del prezzo del petrolio mette in difficoltà l’orso russo, come gli effetti delle sanzioni economiche. La combinazione dei due fattori sta piegando un paese in crisi finanziaria e valutaria e soprattutto con una struttura industriale debole. Anche le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale ne subiscono il peso, con il rischio di una crescita dell’influenza cinese in quest’area e di una “saldatura” sempre più forte dell’asse russo-cinese in una fase in cui la debolezza della Russia più che portare a una diminuzione dell’aggressività della sua politica estera, sembra avere gli esiti opposti.

          L’instabilità dell’area delimitata dal Mediterraneo meridionale ed orientale è il terzo grande fronte di instabilità. Qui il tentativo di promuovere l’esportazione della democrazia è fallito. In Nord Africa, la grande preoccupazione è la Libia, paese fondamentale nella sicurezza di tutta l’Europa. Al disordine e alla frammentazione dilagante, non sembra esserci però altra soluzione del negoziato politico promosso dall’ONU, che dovrebbe puntare a rimuovere le condizioni che alimentano la “guerra per procura” attualmente in atto, ovvero i flussi di risorse finanziarie ed armi alle fazioni da paesi come Turchia, Qatar e gli altri paesi del Golfo. Sarebbero invece inefficace l’embargo sugli idrocarburi da parte dell’Europa e difficilmente realizzabile un intervento militare. Nella crisi un ruolo essenziale può essere giocato dall’Egitto, di nuovo stabile grazie al controllo militare su istituzioni, economia e territorio. Il paese ha un potenziale di crescita fino ad ora inespresso e un ruolo geopolitico fondamentale.

          Nell’area del Golfo molta curiosità ha destato poi la successione in Arabia Saudita. Alcuni ministri chiave sono stati confermati ma ci sono stati anche innesti di giovani “promesse” nella speranza di dare energia propulsiva e, per quanto possibile, riformatrice ad un paese la cui stabilità è sempre a rischio sul fronte interno per tensioni demografiche e socio-politiche e su quello esterno per il possibile disimpegno dell’alleato americano dal Medio Oriente e l’ influenza iraniana. Con gli ultimi eventi il paese sembra uscito dalla morsa. Nel breve la stabilità interna e l’influenza esterna non sembrano compromesse. Ma nel lungo termine molto dipenderà dagli sviluppi nel mercato petrolio e dall’eventuale “scongelamento” dell’Iran con la risoluzione del negoziato sul nucleare.

          Infine la Turchia. La trasformazione in senso profondamente islamico e conservativo non è del tutto sgradita alla società, che non ha mai veramente metabolizzato il laicismo, ma soprattutto ha dato il consenso alla visione liberista dell’AKP che ha favorito una crescita economica sostenuta e diffusa in vari strati della società. Si è così rafforzata la classe media che supporta Erdogan nonostante le sue derive autoritarie, dopo anni di stagnazione e restrizione delle libertà civili del regime kemalista. Il successo di Erdogan non è dunque paradossale, come potrebbe sembrare a prima vista. La minaccia alle istituzioni democratiche del paese però è sempre più forte tanto da toccare anche l’indipendenza della Banca Centrale e delle authorities. Il fallimento dell’integrazione nella UE è molto negativo perché una Turchia alleata dell’Occidente sarebbe stata utile oggi nelle crisi in Medio Oriente. La Turchia sta invece giocando una partita geopolitica in proprio e questo sta destabilizzando tutta l’area.

          Il settore più “caldo” del 2014 è stato senza dubbio quello energetico. Un fattore sta sconvolgendo il mercato degli idrocarburi: la transizione verso l’indipendenza energetica negli USA, oggi minacciata dal crollo dei prezzi. Nel petrolio la competizione è tra l’industria non convenzionale nordamericana e l’OPEC che lascia scivolare il prezzo nella speranza che la prima si contragga. Le implicazioni geopolitiche del crollo dei prezzi sono potenzialmente stravolgenti. Il calo dei prezzi mette in pericolo l’indipendenza energetica degli USA e potrebbe far ripensare la loro strategia di disimpegno strategico dal Medio Oriente. Mentre sembra indebolire i suoi principali nemici in America Latina (Venezuela), Medio Oriente (Iran) ed Eurasia (Russia), e potrebbe estremizzare la loro aggressività invece di ammansirla.

          Per l’Europa la sicurezza energetica è essenziale. Occorre eliminare inutili ostacoli amministrativi all’esplorazione di idrocarburi, ma soprattutto risolvere la questione dei rapporti con la Russia. Non tutti concordano che una contrapposizione con la Russia sia positiva, ma soprattutto inevitabile. Il gas e le rinnovabili devono avere un ruolo fondamentale per una transizione verso un’economia più efficiente e sostenibile che la politica energetica europea deve incentivare ma senza sovvenzionare più l’adozione di tecnologie obsolete e non efficienti. Piuttosto dovrebbe sostenere nel loro stadio iniziale lo sviluppo di tecnologie innovative che puntano a regime a non avere bisogno di sussidi. E questa esigenza è ancora più forte in un mondo in cui i prezzi degli idrocarburi sono crollati.

          Nella sessione finale si è discusso della capacità di innovazione e della competitività dell’Europa: la crescita economica è uno snodo essenziale per la crisi finanziaria. Nel breve, l’Eurozona deve affrontare il problema della sostenibilità del debito pubblico, ma l’austerità ha dimostrato di non poter funzionare se non si riattiva una crescita sostenuta della produttività. Timidi segnali di ripresa dell’Eurozona si stanno manifestando, ma occorrerà dare il supporto necessario con il giusto policy mix. L’espansione monetaria del quantitative easing della BCE non basta: occorre agire anche a livello nazionale, con riforme strutturali, bilanci pubblici in equilibrio nel medio termine e un maggiore impegno per favorire gli investimenti. I rischi sono comunque elevati.

          Un dato di fatto è l’asimmetria strutturale tra le economie dei paesi membri tanto da dover forse ripensare l’architettura europea e rinnovare le sue istituzioni. Occorre spingere l’acceleratore del processo di “mutualizzazione” finanziaria e anche politica. È stata avanzata la proposta suggestiva di un nuovo Trattato. Un ostacolo oggi è la crisi di fiducia tra i paesi membri, ma per questo forse è necessario un nuovo patto europeo e una nuova governance. La crisi di fiducia è oggi davanti agli occhi di tutti soprattutto in Grecia dove  tutto sembra precipitare con il ritorno alla recessione. Non è da escludere la possibilità di una escalation politica e un referendum indetto dal governo per uscire dall’euro. Cosa che si potrebbe verificare presto anche in altri paesi dell’Unione, come in Francia, se alle prossime elezioni vincesse Le Pen. La crisi europea e uno scenario catastrofico per l’Unione Europea monetaria e politica rappresentano ancora una minaccia. L’austerity degli ultimi anni ha forse sottovalutato questo rischio.

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